cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

mercoledì 14 marzo 2012

Uscita III° NUMERO IL PENTAGRAMMA @ Color Cafè 10/03/2012

Ecco alcune foto della serata di sabato!

grazie a tutti di essere passati,
grazie al Color Cafè per l'ospitalità
grazie ai The Early Bird per il djset
e a Triangle per il visual






per sofogliare, scaricare e stampare gratuitamente il III° numero de IL PENTAGRAMMA "LE OSSA"
cliccate sul giornalino:

 

sabato 10 marzo 2012

Quando la musica ti penetra nelle ossa

ora le tue ossa si corrodono / eppure stai nell'aria / e conta per me




Il 2011 è un anno importante per me: una laurea tanto desiderata e un concerto. Il 2011 è infatti anche l'anno in cui esce il quinto album dei Verdena, Wow. Che relazione c'è tra la mia laurea e il concerto? Nessuna forse, o molte.

Laurearsi è un obiettivo per molti, per me non era un obiettivo: era un sogno. Non desideravo nient'altro che una laurea in Lettere, ma nei sogni, si sa, si è sempre avversati da qualcosa o qualcuno, e anche io nel mio lo sono stata. Alla fine però l'ho raggiunto quel pezzo di carta, così come ho raggiunto, dopo anni di CD consumati, un gruppo che ha contribuito al mio avvicinamento alla musica. Sia chiaro, non si tratta di un'apologia adolescenziale dei propri idoli musicali, per carità, bisogna riconoscere però che i Verdena, nel bene e nel male, tra detrattori e sostenitori, hanno segnato l'ultimo quindicennio del panorama rock italiano.

Bergamo, metà anni '90, due fratelli magri come cadaveri e con i capelli davanti agli occhi infossati, fondano i Verdena: ad Alberto Ferrari (voce e chitarra) e al fratello Luca (batteria), si aggiunge poco dopo la bassista Roberta Sammarelli.
L'inizio è quello classico, comune a tutti i gruppetti alternativi che smaniano di urlare la loro musica: il trio comincia a suonare nei centri sociali e nei piccoli locali della loro zona. Passano un paio di anni. La maggior parte di quei gruppi svanisce nel nulla, schiacciati dal peso della dura verità: nell'elitario universo musicale non c'è spazio per tutti. Ma i Verdena se lo prendono questo spazio. Nel 1999 esce il loro primo album omonimo, e boom! Il gruppo, all'epoca poco più che ventenne, dalle impervie valli bergamasche viene catapultato nel mondo della musica: contratto con una major, Mtv che passa continuamente il video di Valvonauta, la cerchia dei fan che si allarga sempre più, i live, ma anche i pesanti paragoni con i Nirvana, i pregiudizi di una parte della critica che li definisce "rumorosi e incomprensibili".
Quel che è certo è che i tre ragazzini sanno fare rock, e ciò che sorprende è che lo sanno fare in Italia: suoni ruvidi e reminescenze grunge, il tutto mescolato ad una voce, quella di Alberto Ferrari, pulita e bassa, e a testi sì forse incomprensibili ma in grado di esprimere rabbie e malesseri giovanili.
In ogni caso, ai Verdena di ciò che pensa la critica non gliene importa niente, decidono di andare avanti e si affidano alle cure di Manuel Agnelli. Ecco allora che nel 2001 esce Solo un grande sasso: l'atmosfera dell'album si fa più cupa rispetto al precedente lavoro, con brani lunghi, psichedelici e divagazioni strumentali continue. Non mancano le solite critiche, ma l'album è un piccolo gioiello, sintomo che una certa maturazione musicale sta avvenendo. Ed ecco perché il gruppo non ci sta a sottostare alle condizioni di un mondo discografico quanto mai infido e ambiguo: varcate le soglie del 2000, le major abbandonano il progetto iniziato alla fine degli anni '90 di dare voce alle realtà musicali emergenti e alternative e ritornano alle vecchie care sicurezze commerciali. I Verdena non ci stanno, no. A loro non interessano le strategie di vendita, a loro interessa solo far musica. Nel 2004 esce Il suicidio del samurai, interamente autoprodotto. Scomparse quasi del tutto le divagazioni strumentali, ritornano testi più brevi e suoni più melodici, anche se non manca un pezzo quanto mai memore del grunge, Elefante. Che dire, ormai un nome se lo sono fatti questi Verdena.
Ma ecco che per tre anni spariscono, pochi concerti, nessuna intervista, periodo importante. Nel 2007 esce Requiem, un album diverso da tutti i precedenti e che divide anche i fan. Atmosfere oniriche, testi visionari, suoni quanto mai distorti, rifiuto del melodico. Insomma, una musica tutt'altro che da funerale. Ma poco dopo spariscono di nuovo. Del resto gli artisti sono fatti così.


2011, a gennaio esce Wow, a giugno mi laureo, a novembre assisto ad una delle ultime date del tour con il quale i Verdena hanno promosso il nuovo disco. Spiazzano anche questa volta. Un album doppio, 27 tracce, dopo 4 anni di assenza. Eh sì ci vuole coraggio. Il disco più multiforme della loro produzione: pezzi brevi, pezzi strumentali, pezzi dolci, pezzi incazzati, pezzi grunge, pezzi pop. La critica questa volta è unanime nel giudicare positivamente l'album. Del resto non sono più i Verdena di Valvonauta. Sono cresciuti, sono maturati, hanno trovato la loro strada. E i tanti ragazzi che alla fine degli anni '90 ascoltavano Valvonauta pieni di ansie e sogni, l'hanno trovata la loro strada? Forse sì, forse no. Io la mia ancora non l'ho trovata, sì mi sono laureata ma che cosa voglio fare nella vita ancora non lo so. Ecco che allora è nei momenti come quelli in cui assisti al concerto del gruppo che ti ha accompagnato nell'adolescenza, ascoltando quella musica che ti è ormai entrata nelle ossa, che ti rendi conto che il tempo passa, la giovinezza si consuma e ti assale la malinconia di quei ricordi quando a 16 anni, sul lettore cd, premevi repeat sulla tua canzone preferita.

D.C.



ascolto consigliato: VERDENA. Wow. (Universal) 2011



Marina Abramovic “Balkan Baroque”

“Una volta che sei entrato nello stato della performance, puoi spingere il tuo corpo a fare cose che non potresti assolutamente mai fare normalmente.” [Marina Abramovic]

Tre giorni.
Tre giorni in cima ad una montagna sanguinolenta di carcasse di mucca.
Tre giorni passati a pulire ossa di animale.

Quando vidi per la prima volta una performance di Marina Abramovic ero ancora all’università. Era giugno, di primo pomeriggio. Il caldo era soffocante e la luce proiettata sul muro dell’aula in penombra di certo non aiutava l’attenzione degli studenti appena tornati dalle mense.
Nel video, “molto forte ed emotivo” disse la professoressa, c’era lei. Bianca e bellissima. Con una lametta si incideva l’addome a formare una stella, simbolo di femminilità.
Guardai i miei compagni: occhi sbarrati al muro proiettato.
Per me che, alla vista di sangue o di siringhe per prelievi, rischio ogni volta di svenire, fu un duro colpo. Dovetti alzarmi ed uscire dalla stanza.
Fu amore a prima vista.

Marina Abramovic riceve il leone d'oro alla Biennale di Venezia del '97 con la performance Balkan Baroque: un vero schiaffo al mondo occidentale, cieco, che finge di non accorgersi degli orrori causati dalla guerra in Jugoslavia.



Durante l'ideazione e la creazione di questa performance, la Abramovic, non reagisce alla notizia della guerra come farebbe un qualsiasi quotidiano, la tempestività non aiuta gli artisti; piuttosto ne fa un lavoro spirituale, ideale: “Quando ho fatto Balkan Baroque non pensavo solo alla Jugoslavia, era una immagine valida per ogni guerra e ogni paese.” Compito dell’artista è la denuncia per metafore, per immagini forti “a lungo termine”, in maniera “teorica”, senza esprimere opinioni, ma piuttosto regalando una visione personale.
Come a mondare il suo popolo dalle colpe di cui si va macchiando, l'artista passa sei ore al giorno, per tre giorni, a disossare brandelli di carne da ossa accatastate nei sotterranei del padiglione Montenegro della Biennale.
Una performance che logora chi la propone e lascia sconvolto chi la osserva; tra litanie e lamenti, alle spalle dell’artista si susseguono interminabili video che celebrano il suo legame con un paese diviso da terribili guerre. Immagini evocative, a volte forti, crude, ma sempre cariche di spiritualità.

Il lavoro della Abramovic, seppur poco diffuso e poco compreso dalla maggioranza del pubblico non appartenente all'èlite del mondo dell'arte, ha dato il via al capitolo della Body Art.
Alla base sta la ricerca di trasformazioni emotive e spirituali: l'artista si dedica alla creazione di opere che ritualizzano le semplici azioni del vivere quotidiano, suggestive performance che hanno l'obiettivo di portare l'attenzione su tematiche di carattere sociale, politico e culturale.
Il corpo della performer è esso stesso soggetto ed oggetto d’arte: lo stare in prima persona di fronte al pubblico sottolinea il suo intento a veicolare significati tramite il corpo.
Body Art estremizzata.
Giunge ai limiti estremi della resistenza fisica e psicologica, compie gesti estremi di sopportazione, a discapito del proprio fisico.
Azioni fondate sull'esibizione del massimo autocontrollo, della capacità di tollerare ogni sorta di paura, umiliazione, di fatica.
Un’arte di denuncia. Denuncia tramite il proprio corpo, sul proprio corpo.

Pensando alle sue creazioni rimango ogni volta colpito da come il messaggio arrivi subito lampante: l’accusa alle troppe guerre che causano morte e fame, all’avidità di potere, alla misoginia, allo sfruttamento. Credo che nel suo lavoro la Abramovic abbia raggiunto il suo obiettivo: ha creato un’opera d’arte immortale e tutt’ora attuale.

Quando sento nominare "la nonna della performance" - così ama essere chiamata – mi vengono in mente alcune sue qualità: è spirituale, forte, profonda, bella, intelligente, giusta, fortunata, disponibile, aperta, esibizionista, esploratrice, piena d’energia, carismatica...
Riesce a coinvolgere la gente, provocare un giudizio, non lasciando mai nessuno indifferente. Nel mondo dell’arte è sempre stata coraggiosa e controriformista.
Credo che ogni artista che ha poi deciso di adoperare il proprio corpo come “materia” d’arte, debba a lei un tributo.

" Il corpo è il materiale dove le cose accadono”.

È stato proprio amore a prima vista.


A.L.





visione consigliata: Marina Abramovic, “Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful” 1975
Marina Abramovic , “The artist is present” 2012


L’osso delle cose. Camillo Sbarbaro.

“Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai rassegnata).”

E’ così che si apre Pianissimo (1914), la maggiore raccolta di poesie di Camillo Sbarbaro.
E’ un imperativo alla propria anima di spogliarsi di ogni emozione, di azzittire la propria volontà, di denudarsi da ogni orpello sentimentale o indugio emotivo.

“[...] camminiamo io e te come sonnambuli./ E gli alberi son alberi, le cose/ sono cose, le donne/ che passano son donne, e tutto è quello/ che è, soltanto quel che è”.

E’ come se non ci fosse più nulla dietro il manifestarsi delle cose, come se ogni significante avesse perso il suo significato.
Non c’è più un senso altro, profondo, ma “tutto quello che è, è soltanto quello che è”.
E’ un vero e proprio processo di “mineralizzazione”, di riduzione all’osso dei sentimenti.

“Perduto ha la voce/ la sirena del mondo, e il mondo è un grande/ deserto”.

Alla fine rimane solo un “grande deserto”, una desolazione dell’animo.
L’uomo è trasformato in pietra:
“A queste vie simmetriche e deserte/ a queste case mute sono simile./
Partecipo alla loro indifferenza, alla loro immobilità./ Mi pare [...] d’esser fatto di pietra come loro”.

La sensazione che dà la poesia di Sbarbaro è proprio quella di un graduale scavare e “rodere” la carne e il grasso e tutto ciò che c’è di “succulento” attorno all’osso delle cose.
La vita è spogliata di ogni carezzevole suppellettile, di ogni decoro o illusione.

Ma tolta ogni finzione, ogni speranza
Cosa rimane?



G.D.C



Gli scheletri nell’armadio di Clint Eastwood: quattro giorni del 1965 riletti vent’anni dopo

“Prima ti faccio un buco in faccia, poi rientro in casa e dormo come un pupo. Puoi starne certo. Con le caccole come te ci facevamo i muretti in Corea, i sacchetti di sabbia”

Lunedì 20 febbraio 2012, per la prima volta, ho guardato e amato Gran Torino, film del 2008 diretto da Clint Eastwood. L’ho veramente apprezzato. È stato così che il culto per questa “maschera”, come Sergio Leone ha definito l’attore, è riaffiorato focosamente riportandomi alla memoria I ponti di Madison County. Ora non ricordo precisamente la data in cui lo vidi per la prima volta, fu all’incirca un anno fa, ma ricordo che mi scatenò dentro un cocktail, misto di commozione-turbamento-patetica immedesimazione-fame e una singolare cascata di liquido acqueo prodotto dall’apparato lacrimale, che segnò la mia emotività per diverso tempo.
Un flashback ci riporta indietro dal 1987 al 1965.
1987: il testamento di una madre, Francesca, letto dai due figli. La sorpresa nel trovarvi la richiesta di farsi cremare e di far spargere le ceneri del proprio corpo dal ponte Rosmin. L’incredulità e la convinzione dell’aver a che fare con il desiderio di una pazza. Dei vecchi diari che raccontano la storia del suo tradimento.
1965: fiera annuale dell’Illinois, i figli e il marito Richard staranno via per quattro giorni. Sola in casa, Francesca fa la conoscenza di Robert, fotografo del National Geographic, e lo accompagna fino ai ponti. Tra i due c’è alchimia, lei è un po’ impacciata, ride. In breve si lasciano andare alle confidenze, lui le pone delle domande invadenti e inopportune, lei risponde: suo marito è uno “pulito” e la sua vita “non è quella che aveva sognato da ragazza”, ma “i vecchi sogni erano bei sogni, non si sono avverati, comunque li ho avuti”. Se lei tende sempre a sminuirsi, a considerare la sua esistenza come fatta di piccole cose, dedicata alla crescita dei figli, intaccata dalla malinconia nel sapere che un giorno si sarebbero allontanati di casa e che ormai sarebbe stato troppo tardi per ricordarsi come fare a vivere; Robert invece si definisce un cosmopolita che riesce sempre a non sentirsi solo e che giudica la società “limitata”.
In mezz’ora di film i due sconosciuti si avvicinano progressivamente fino a costruire una relazione che in breve giunge al termine per l’imminente ritorno della famiglia a casa. Da questo punto in poi è palpabile l’angoscia della divisione, la certezza quasi che stando insieme avrebbero perso ciò che quei quattro giorni avevano regalato loro e distrutto una famiglia, ma anche che dividendosi avrebbero reso speciale il tempo passato assieme. Si salutano sapendo però che Robert sarebbe rimasto in città ancora un po’. Lei affoga la tristezza nelle faccende domestiche, “ salvagente in ricordo di quei quattro giorni”, lasciando passare le ore e i giorni. Fino a quando, in una giornata di pioggia, Francesca e Robert si rivedono, lei sembra pronta a scendere dalla macchina del marito per andarsene con lui, ma scatta il verde e Robert parte. È questa la scena del film che più ferisce, addolora, lacera. Da quel momento in poi i due non si rivedranno mai più. Mai più. Dopo la scomparsa del marito Francesca lo cerca, ma non riesce a saperne nulla fino a quando non viene a conoscenza della sua morte. Le viene fatto recapitare un pacco in cui sono contenuti i loro ricordi, tra questi Francesca trova un libro di fotografie dedicato a F.: “Four days”. Straziante, molesto, spiacevole nel senso proprio del termine, questo film ha segnato la “mia emotività per diverso tempo”.





Gli scheletri nell’armadio che io ho ritrovato in molti film di Clint Eastwood mortificano, scalfiscono, percuotono.
Come Changeling, del 2008, in cui Walter Collins viene rapito e la madre Christine, decisa a non arrendersi, sfida il sistema e la polizia venendo chiusa in manicomio per diverso tempo. Oppure Million Dollar Baby, del 2004, in cui il freddo allenatore Frankie Dunn chiama l’allieva Maggie: ‘Mo Cùishle’, mio sangue, mio tesoro. Oppure Gunny dell’86 in cui l’agente Tom, brusco ed irrispettoso delle regole, decide di riconquistare la moglie e riesce a ottenere la stima dei suoi marines. E questi sono solo i primi che mi vengono in mente, si potrebbe citare anche la saga con protagonista l’ispettore Callaghan, nel quarto episodio innamorato della donna che si sta vendicando del gruppo di persone che l’avevano violentata da bambina. Oppure I ponti di Madison County: “Il mio unico legame con lui erano i posti in cui eravamo stati insieme in quei quattro giorni: così ogni anno per il mio compleanno li ho rivisitati...Non trascorse mai un solo giorno senza che pensassi a lui”. Molesto è l’aggettivo giusto.


visione consigliata: I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County), Clint Eastwood, USA - 1995
Gran Torino, Clint Eastwood, USA - 2008
S.T.


Pére Lachaise, ultima fermata.

Ogni persona intraprende il viaggio della vita attraverso percorsi e mezzi diversi. C’è chi viaggia in business class, chi in economica, chi clandestinamente, chi il treno lo vede solo passare. Si dice che il capolinea sia uguale per tutti, ma non sempre è così. A Parigi, per esempio, fino a nemmeno due secoli fa l’ultima fermata era diversa a seconda del ceto sociale, delle disponibilità economiche. C’era chi non poteva nemmeno permettersi una bara, e veniva calato nella fossa coperto solo da un telo, ma addirittura c’era chi una fossa non l’aveva e finiva a popolare le catacombe, archivio di ossa e corpi senza nome. Al Pére Lachaise la storia è diversa, riposano ordinatamente le ossa e le polveri di personaggi celebri che hanno caratterizzato l’arte, la musica, la letteratura, la politica francese e non solo.
Mi piace pensare al Pére Lachaise come ad una sorta di “Circolo dell’eterno riposo”, dove le menti più illustri degli ultimi due secoli trascorrono il tempo tra chiacchiere infinite, dove il tempo non è più un bene scarso. Proviamo ad entrare in questo strano Club…

Il centro della scena lo prende Jim Morrison, egocentrico e carismatico come sempre. È venuto a Parigi nel 1971, voleva diventare un poeta maledetto, ma vi ha trovato la morte e la consacrazione a leggenda in una vasca da bagno. Ora se ne va in giro tra le tombe, canta i suoi versi, nostalgico della folla che lo idolatrava e lo faceva sentire il Re Lucertola. Seguiamolo, la cosa non è difficile, Jim è sbronzo come sempre e si regge in piedi a fatica. Una voce soave ci attira, accompagnata da note di pianoforte molto tristi…è il grande Fryderyk Chopin, che improvvisa con Maria Callas un duetto struggente ed emozionante. Il povero Chopin è ancora giovane, non ha nemmeno raggiunto i 40 anni, ha un buco nel torace: il suo cuore non è qui, è a Varsavia, sua terra natale.
Dietro alla Callas spunta un’altra donna, le fa il verso…Edith Piaf, “il passerotto”, anche lei vorrebbe cantare sulle note del maestro. I tre non si sono ancora accorti che qualcuno li sta spiando: Eugéne Delacroix vuole fare una sorpresa al suo amico Fryderyk, dedicandogli il quadro con cui gareggerà al prossimo concorso d’arte organizzato dai custodi del Pére Lachaise. L’anno scorso ha vinto Modigliani, con uno dei suoi nudi raffinati; ritraeva Eloisa, ma Abelardo non l’ha presa bene tanto che Amedeo ora è costretto a girare alla larga dal settore 7.
Così come gli occhi di Edith Piaf sono astiosi verso la Callas, anche Delacroix ha il suo denigratore: Jean Auguste Dominique Ingres non lo può vedere, ma nel vero senso della parola tanto che i suoi occhi malati gli impediscono di continuare a dipingere. Come se non bastasse Jim Morrison lo sta prendendo in giro con un verso di The End (I’ll never look into your eyes again).
Ad un tratto veniamo urtati da un uomo vestito di verde…sta cercando di recitare qualcosa ma una tosse persistente gli impedisce quasi di parlare; il Malato immaginario Molière ha ancora il vestito della sua ultima rappresentazione e viene evitato da tutti, Jim compreso. Ci allontaniamo anche noi, ed un profumo di caffè ci spinge verso un angolo nascosto dove un altro personaggio è sommerso da fogli e scrive avidamente senza un attimo di requie; Honorè de Balzac sta scrivendo la sua “Commedia dell’oltretomba”, seguito della monumentale Commedia Umana. È affiancato da Oscar Wilde, ma i due in realtà non sembrano andare molto d’accordo, Wilde continua a citare aforismi e Balzac sembra molto infastidito.
Un dubbio ci assale: odio, invidia, livore continuano a pervaderci anche quando di noi non restano altro che le ossa?
Into this world we’re thrown / like a dog without a bone.
Pienamente d’accordo, Jim.
M.F.

giovedì 1 marzo 2012

IL PENTAGRAMMA: NUMERO III° - IN USCITA IL 10 MARZO 2012 @ COLOR Cafè

IL PENTAGRAMMA: NUMERO III° - "LE OSSA"

IN USCITA IL 10 MARZO 2012 @ COLOR Cafè 


vjset by Triangle



tutto iniziò così:


"per liberarmi dai vecchi scheletri nell'armadio sconsolato divoro sbarbaro
passeggiando tra i cadaveri della guerra dei balcani nel cimitero di pere lachaise 
rimpiango le tue ossa nell'altitudine."