cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

lunedì 27 febbraio 2012

4’33’’

“Mi è sempre parso che la musica dovrebbe essere soltanto silenzio” [Marguerite Yourcenar]
Il silenzio.
Il silenzio in occidente viene associato molto spesso all’idea della morte, a giudizi negativi, ad attimi ansiosi. Nella nostra società il silenzio viene spesso evitato: come non far caso alle fastidiose musichette di sottofondo che ci tengono compagnia in pizzeria, dal meccanico e perfino mentre aspettiamo che l’anestesia del dentista faccia effetto?
Eppure il silenzio in musica è un suono, un mezzo espressivo pieno di potenziale significato: risalta e amplifica i suoni, li rende più intensi, ne annuncia l'entrata, crea suggestivi istanti d’attesa e sospensione.
Questa ricerca si trova alla base della poetica di John Cage che, nel 1952 presenta lo spartito di “ 4’33’’ ” per qualsiasi organico. Questa partitura può essere eseguita da chiunque, anche da chi non sa suonare alcuno strumento: ci si siede, in silenzio, davanti al piano o con la tromba in mano, e si ascoltano i rumori provenienti dalla sala da concerto e dall’esterno.
Il pezzo è nato dall’esperienza del compositore ad Harvard, all’interno di una camera anecoica – stanza perfettamente insonorizzata - dove Cage comprende che il silenzio non esiste, ma al contrario è materia sonora vera e propria, un attributo del suono.
L’avvicinamento alle filosofie orientali lo porta ad una visione di abbandono dell’io, il compositore non controlla più il suono, la natura, ma è piuttosto il mondo che controlla la partitura: “La musica è natura, non imitazione della natura”.
Attraverso l’alea, Cage, vuole imitare l’indeterminatezza dei suoni casuali creati nell’universo. Questo significa abbandonare l’idea della centralità dell’uomo, rinunciare all’intenzionalità del gesto; il compositore diviene “liberatore di suoni”: non crea, non esegue, non domina. Solamente ascolta.
Di questi tempi si ha un ribaltamento di questo pensiero: la musica che viene prodotta e consumata ha escluso la poetica del silenzio, è diventata un misto di ridondanza e ripetitività, stesse linee melodiche e casse martellanti ossessive; per non parlare del musicista divinizzato alla stregua di un dio creatore.
Oggi la musica ha perso di significato. La musica è diventata semplice divertimento o comune sottofondo (che dà pure fastidio!), ha perso la voglia di dire qualcosa, l’innovazione, la concentrazione e l’attenzione per i problemi che ci circondano.
Abbiamo paura del silenzio, allora per liberarsi dal problema realizziamo musichette banali piene zeppe di suoni orecchiabili, che ci rendono immortali di fronte ad un pubblico che viene sommerso da queste, anestetizzato dalla pubblicità, dalla tv e dai media in generale.
4’ 33’’ pezzo che “sono capace di fare anch’io” mira proprio alla riscoperta di una musica pura, senza grandi artifici estetici o passaggi melodici particolari, mira ad una musica piena di significato, che nel suo “non dir nulla”, nei suoi 4 minuti e 33 secondi di silenzio, dice tutto ciò di cui abbiamo bisogno. La musica, il mondo, la natura, l’arte, siamo noi, siamo circondati da queste bellezze e molto spesso non ce ne accorgiamo perché troppo presi ad ascoltare un “sottofondo fastidioso”.
John Cage ha rivoluzionato il modo di fare e di usufruire d’arte, ha messo in discussione le basi della percezione: ci ha voluto riportare all’ascolto dell’ambiente in cui viviamo, all’ascolto del mondo; cosa a cui, troppo spesso, non facciamo caso .
Ogni suono può essere musica, ogni movimento, segno o parola può diventare arte.

[A.L.]

mercoledì 22 febbraio 2012

Il personaggio Al Pacino

Se fossi un insegnate di recitazione, ai miei studenti direi solamente due parole: Al Pacino.
Certo, nessuno è perfetto, non lo sono gli dei dell’Olimpo figuriamoci se lo può essere Pacino; ma se devo scegliere un attore che ne possa rappresentare la categoria, non ho alcun dubbio.
Al Pacino fa parte di quella generazione di attori che negli anni ’70 hanno fatto la storia del cinema, insieme a Robert De Niro, Dustin Hoffman, Jack Nicholson. Il cinema di quegli anni era molto diverso rispetto ad oggi, si basava su storie semplici ma mai banali, con un pathos ed un’emotività nei dialoghi molto intensa, che facevano risaltare le qualità dell’attore, oggi forse surclassate da trame complicate e dalla ricerca spasmodica del colpo ad effetto.
I personaggi interpretati da Al Pacino, seppur completamente diversi l’uno dall’altro, sono entrati nella storia: da Michael Corleone ne Il Padrino a Tony Montana in Scarface, da Carlito Brigante in Carlito’s Way a Frank Serpico in Serpico. Molte volte il personaggio in questione si riferiva ad una persona e ad una storia reale, ma il merito di Al Pacino è sempre stato quello di rendere originale ed unico il personaggio: non ve n’è uno che assomigli all’altro. A mio avviso, la migliore interpretazione in assoluto Al Pacino l’ha fornita nel 1975 in Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet: l’attore riesce a trasmettere le sensazioni di paura, frenesia, inesperienza che attanagliano il ladro di banca che si vede sfuggire la situazione di mano, che deve allo stesso tempo tenere a bada un complice a dir poco strano, un negoziatore irrequieto, il direttore di banca diabetico, la folla, la polizia, la TV, l’uomo della pizza…
Al Pacino si immedesima nel personaggio e lo rende suo, anzi nostro. Ci fa entrare nel film, ce lo fa vivere di prima persona quasi fossimo noi spettatori i protagonisti. Così sentiamo nostra la frenesia giovanile e la ricerca dell’eccesso di Bobby in Panico a Needle Park, la fermezza nello sguardo e nelle decisioni di Michael Corleone ne Il Padrino, la lussuria e la malvagia pervicacia di John Milton ne L’Avvocato del diavolo, o l’incorruttibilità e la denuncia di Frank Serpico in Serpico.
La cosa che più emoziona nella recitazione di Pacino è l’espressività nello sguardo: rabbia, dolore, soggezione, decisione, vengono trasmesse da due enormi occhi profondi e scuri a cui l’attore sa dare sempre la migliore espressività. Un’espressività tale da consentirgli di vincere il premio Oscar (l’unico nella sua carriera) nel 1992 come miglior attore protagonista in Scent of a Woman – Profumo di donna di Martin Brest, dove Al Pacino interpreta Frank Slade, colonnello cieco in pensione che ha deciso di godersi l’ultimo week end della sua vita. Altro marchio di fabbrica di Al Pacino sono i monologhi, come ad esempio quello del coach Tony d’Amato in Ogni maledetta domenica, o di John Milton ne L’avvocato del diavolo, memorabile quello finale di Scent of a Woman, ma ancora più straordinaria l’arringa di Arthur Kirkland in …E giustizia per tutti di Norman Jewison.
A completare il quadro ci pensa poi una voce particolare e caratteristica, acuta e squillante nelle interpretazioni giovanili, diventata poi progressivamente rauca e matura negli anni ’90 (una nota di merito va in tal proposito ai doppiatori italiani di Al Pacino, Ferruccio Amendola prima e Giancarlo Giannini poi, i quali, soprattutto Giannini, concorrono a rendere magistrali le interpretazioni dell’attore). Ed è anche nella pronuncia che Al Pacino riesce a rendere unici i propri personaggi, mi riferisco in particolar modo all’accento ispanico di Tony Montana in Scarface o al dialogo siculo-americano tra Michael Corleone e Sollozzo ne Il Padrino.
Insomma, Al Pacino è un attore in grado di emozionare, divertire, appassionare come pochi, ed ogni sua interpretazione merita la visione a prescindere, perché lascia sempre qualcosa. Ma, come direbbe Lefty Ruggiero in Donnie Brasco, “che te lo dico a fa’?”
Concludo proponendo una top five (personale, come tutte le classifiche d’altronde) delle interpretazioni di Al Pacino; mi riferisco solamente alla performance dell’attore, non al film nel complesso (nel qual caso Il Padrino non avrebbe rivali).
1.       Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975)
2.       Scent of a woman – Profumo di donna (1992)
3.       …E giustizia per tutti (1979)
4.       Scarface (1983)
5.       Il Padrino parte II (1974)
Ora sarei curioso di leggere le vostre top five!
[M.F.]


martedì 14 febbraio 2012

Facciamo il punto.


Il mese di Gennaio in tre punti

Eurispes fornisce alcuni dati, riguardanti i traffici della camorra, secondo i quali l’organizzazione criminale guadagna 7.230 milioni di euro per traffico di droga, 2.582 milioni da imprese e appalti pubblici, 2.066 milioni per traffico di armi, 258 milioni da prostituzione, 362 milioni da estorsione e usura.

Wikipedia fornisce alcuni dati, riguardanti l’ Iran e la pena capitale, secondo i quali lo stato compie oltre 300 esecuzioni all'anno, molte delle quali rimangono nell’ombra. Ciò significa che in Iran, in seguito alla condanna decisa da un tribunale, ad un essere umano è dato di togliere la vita ad un suo simile. I metodi permessi sono impiccagione e fucilazione, poiché la lapidazione è stata benevolmente depennata dalle possibilità nel 2003.

20 gennaio - Castellammare di Stabia, un comune in provincia di Napoli, festeggia il santo patrono. La statua di San Catello, nel rispetto della tradizione, sosta per alcuni minuti davanti alla cappella di Santa Fara che si trova, suo malgrado, proprio sotto il balcone del temutissimo e rispettatissimo boss mafioso Renato Raffone, 78 anni, consuocero del defunto padrino Michele D’Alessandro. “Battifreddo”, vestito di scuro, in testa un cappello nero, ringrazia con un cenno l’omaggio alla chiesetta di cui si cura personalmente la sua famiglia e, dall’alto del suo balcone, nota l’irritato sindaco della città.

La condanna a morte serva da monito per l’omicidio, per i reati legati alla prostituzione, alla droga, all’ estorsione, alla corruzione, al contrabbando, al terrorismo, agli atti incompatibili con la castità ( quindi pornografia, adulterio, stupro, omosessualità), alla blasfemia, all’ apostasia dall'Islam.
-BLASFEMIA= “ingiuria”, parola da cui deriverà poi, in latino DIFFAMAZIONE, termine giuridico che designa una forma di espressione portatrice di lesioni all'onore di una persona o di un’ istituzione.
-APOSTASIA= abbandono formale e volontario della propria religione.




E se la religione decidesse di “inchinarsi” a chi uccide, vende, spaccia, ruba, compra? E se un vescovo, ad esempio Felice Cece, decidesse di non fare eccezioni al protocollo, di sostare davanti alla Cappella di Santa Fara?
Il sindaco Pdl Luigi Bobbio, indignato, dice no. Si sfila il tricolore, ritira lo stendardo e abbandona il corteo religioso ricevendo anche insulti e urla del tipo “non sei neanche stabiese!” di qualche popolano.
29 gennaio – E se invece si insultasse, a quanto pare pure per sbaglio, la religione? Sarebbe possibile perdonare? Magari ammonire? Se un giovane uomo sposato ammettesse di essere colpevole, confessando il falso per darsi così la salvezza, potrebbe lui essere assolto?
In Iran è la morte sempre e comunque.
Saeed Malekpour, 35 anni, programmatore canadese di origine iraniana viene accusato di aver diffuso materiale pornografico tramite un software da lui creato. Nel 2008 rientra in Iran per far visita alla famiglia, viene arrestato e accusato di gestire il sito pornografico Avizoun e di sostenerne altri. È il processo per insulto alla religione e pubblicazione di materiali stranieri immorali e antireligiosi. Presto sarà la condanna.
Dopo un anno di carcerazione l’uomo confessa il coinvolgimento nella creazione del sito a luci rosse, ma tutt’ora si dubita dell’ autenticità delle sue parole poiché egli stesso in una lettera scrive: “Una larga parte della mia confessione è stata estratta sotto pressione, tortura fisica e psicologica, minacce a me e alla mia famiglia, e false promesse di un rilascio immediato se avessi rilasciato una falsa confessione sottoscrivendo qualsiasi cosa gli interroganti stessero dettando”.


23 gennaio – E se un funzionario statale, un console generale di Osaka ad esempio, un Mario Vattani qualunque si lasciasse andare a canti tipici del Ventennio fascista creandosi così attorno una presunta identità da leader di un gruppo fascio-rock? E se questi, effettivamente, inneggiando alla bandiera nera si facesse riprendere a CasaPound, centro sociale di estremissima destra?
Inneggio alla bandiera nera. Fa riflettere.  “Lode alla dittatura” da parte di un console generale il cui compito dovrebbe essere quello di farsi portatore dei diritti e dell’immagine del proprio Stato in terra straniera.  Non è da considerarsi una sorta di “diffamazione” contro lo stato? la storia? il popolo ebraico? Senza contare che l'apologia del fascismo è ancora da considerarsi un reato secondo la legge del 20 giugno 1952, n. 645. Essa, detta anche Legge Scelba, all'art. 4 sancisce il reato commesso da chiunque «faccia propaganda per la costituzione di un'associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista», oppure da chiunque «pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche». “È ancora da considerarsi reato” nonostante il 29 marzo 2011 sia stato presentato in parlamento un disegno di legge che intende abrogare la XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione che, appunto, vieta la ricostituzione del Partito Fascista.

Concluderei con una citazione dal libro di Albert Camus L’Étranger del 1942 in cui per il protagonista Meursault, dopo aver causato la morte di un arabo, viene decisa la pena di morte. “Secondo lui la giustizia degli uomini non era nulla e la giustizia di Dio era tutto. Gli ho fatto notare che era la prima che mi aveva condannato”. Per riflettere.



S.T.

“Eureka!”

Storia di un uomo a cui mancava un punto d’appoggio per sollevare il Mondo.

Nel III secolo a.C. Siracusa era una cittadina fortificata perennemente contesa tra romani e cartaginesi per il suo grande ruolo strategico, al centro del Mediterraneo e quindi del mondo allora conosciuto e soprattutto porto di una regione, la Sicilia, che, strano a dirsi al giorno d’oggi, a quei tempi era una delle terre più ricche, e che verrà in seguito considerata il “granaio di Roma” prima della conquista dell’Egitto.
Siracusa era governata sin dal 270 a.C. da un tiranno, Gerone II, che era solito mettere il piede in due scarpe: non riuscendo a decidersi su chi affidare la protezione della città, egli manteneva buoni rapporti sia con Cartagine che con Roma, fino a che dopo numerosi ribaltoni firmò un’alleanza con quest’ultimi.
A quel tempo viveva a Siracusa un uomo, un fisico, un matematico, un inventore: un genio. Archimede era tutto questo, e dedicava il suo tempo al piacere della scoperta e della conoscenza, per buona fortuna di chi è venuto dopo di lui. La Storia (e sulla stessa lunghezza d’onda si pone anche Vittorio Alfieri nel suo trattato “Del principe e delle lettere”) ci insegna che i migliori scienziati, inventori, artisti, hanno espresso il meglio delle loro capacità intellettuali e creative alle dipendenze di tiranni o signori, basti citare Leonardo da Vinci e Ludovico il Moro, Fidia e Pericle, o il mecenatismo dei Medici a Firenze. Accadde anche per Archimede, che si dice fosse addirittura parente di Gerone e che in ogni caso fu da lui sostenuto e stimato.
La vita di Archimede ci è stata trasmessa attraverso una serie di aneddoti, spesso anche buffi, che contribuiscono ad aumentare il fascino di questo personaggio. Si racconta che un giorno il re Gerone diede ad Archimede una corona d’oro ricevuta in dono chiedendogli di verificare se fosse veramente tutta d’oro, ma con l’ordine di non scalfirla. Archimede passò notti insonni e giorni tormentati non riuscendo a trovare una soluzione al grattacapo. Un giorno, mentre si stava lavando in una vasca (una cosa rara dato che si dice che fosse talmente preso dalle sue invenzioni da dimenticarsi talvolta di lavarsi o mangiare), si accorse che immergendosi il livello dell’acqua saliva, ed ipotizzò che l’immersione di un oggetto avrebbe spostato una quantità d’acqua proporzionale al proprio volume. Ora, sapendo che il volume di un oggetto d’argento è minore rispetto a quello di un oggetto d’oro dello stesso peso, fece fabbricare due blocchi dello stesso peso della corona, uno d’oro ed uno d’argento, riuscendo a scoprire così la truffa di cui era stata vittima Gerone, in quanto la corona spostava una quantità d’acqua simile al blocco d’argento. Archimede era così entusiasta della sua intuizione che saltò subito fuori dalla vasca in cui si stava lavando e, senza nemmeno prendersi la briga di vestirsi, corse da Gerone tutto nudo per la città urlando “Eureka! Eureka!” (“Ho trovato! Ho trovato!”). 


La genialità inventiva di Archimede era riversata nei più svariati campi, dalla creazione di pompe che permettevano di sollevare l’acqua (la “vite di Archimede”), al planetario, all’orologio ad acqua, ai numerosissimi teoremi matematici compresa la scoperta del π (3,14) tanto odiati dagli studenti di matematica di tutti i tempi, e così via. Ma Archimede fu molto attivo anche in campo militare, con la creazione di alcune macchine diaboliche che nell’assedio di Siracusa del 212 a.C. tennero per molto tempo sotto scacco i romani. Dopo la morte di Gerone, infatti, il potere era passato nelle mani di Geronimo che aveva rotto l’accordo con i romani, i quali erano appena usciti sconfitti nell’epica battaglia di Canne contro Annibale. Siracusa venne quindi messa sotto assedio. La città resistette per molti mesi grazie soprattutto ai macchinari difensivi inventati da Archimede, come ad esempio il perfezionamento della catapulta, o la creazione di particolari bracci dotati di uncini i quali afferravano le navi romane e le scaraventavano in mare come fossero giocattoli; o, ancora, l’utilizzo di particolari specchi detti ustori che facevano confluire la luce del Sole in un unico punto incendiando le navi dei romani, i quali superstiziosi com’erano credettero di aver a che fare con qualche divinità irata. Fino a che, si dice per colpa di un tradimento, Siracusa cadde, e il generale romano Claudio Marcello, colpito dalla genialità delle invenzioni di Archimede, ordinò ai propri legionari di risparmiare l’inventore durante il sacco della città. Ma si sa, i soldati romani erano spesso gente rozza e irascibile, e uno di loro, scorto Archimede, gli intimò di seguirlo per consegnarlo al generale: lo scienziato, però, preso com’era da alcuni disegni che stava tracciando sulla sabbia, non aveva orecchi ed occhi per nessuno, tantomeno per il legionario, il quale persa la pazienza decise di trafiggere Archimede. 
Fu così che a settantacinque anni morì uno degli uomini più straordinari che la scienza abbia avuto, al quale, come era solito ripetere, sarebbe bastato un punto d’appoggio per sollevare il mondo: una frase libera da interpretazioni, alla base della sua teoria sulle leve, che ci spiega come con un punto, in fin dei conti, tutto sia possibile.


M.F.

“Ecco il punto!” Incontro con Enrico Minato

­Quest’anno festeggi i trent’anni di attività performative, il catalogo –in omaggio con la rivista “Titolo” di Perugia, edita Rubbettino - contiene le tappe del  percorso che hai seguito dagli anni ’80 sino ad oggi. Cos’è cambiato nel mondo performativo? Trovi che la gente  sia più aperta ad accogliere questa tipologia d’arte oggi o riuscivi a relazionarti, a rivolgerti meglio al pubblico degli anni ‘80-‘90?
È cambiato abbastanza nel mondo dell’arte, negli “addetti ai lavori”; meno nel pubblico “comune”. Il pubblico “d­ell’arte” è più preparato, per cui si aspetta un po’ più di tutto; mentre, il pubblico “della strada” non sa mai cosa aspettarsi, è meno preparato, più puro. Mi piace di più la relazione col pubblico “della strada”, anche se in certi casi, con dei miei lavori che mirano molto o lavorano sul concetto artistico, mi piace confrontarmi anche col pubblico “artistico” per un chiaro motivo di provocazione.
Tempo fa il pubblico era meno preparato per cui potevi presentare qualsiasi cosa, accettava un po’ di tutto, adesso invece è meno facile che accolga tutto. 

Nel capire le tue performances, più che “il gesto”, credo sia fondamentale la “parola”. Sia essa accostata al tuo nome – Campo Minato (2000), Minatom (2001) – o all’azione che viene imitata – Rimpianto (2005), Vago (2000). Credo che l’ironia insita in questi titoli sottolinei ancor di più i problemi che analizzi nelle tue opere.
Questi sono lavori sull’identità, mi è sempre interessato lavorare sull’identità, soprattutto sull’identità dell’artista, quindi sulla mia identità in relazione con il lavoro artistico. È chiaro che ho utilizzato anche il mio cognome perché si presta bene, non solo “Campo Minato” o “Minatom” ma anche “Sono Minato” (performance nella quale indosso delle maglie con scritto “Sono Minato”), “Contaminato”, “Camminato”, si insomma, cerco di lavorare sempre utilizzando un ampio raggio, anche sul mio nome.
Chiaro che è presente un carattere ironico, però non è fine a se stesso. È sempre un’ironia per cercare di capire oltre, cioè, muovere all’ironia un fatto che reputo salutare per l’artista e per il fruitore. Non è soltanto per sorridere o per scherzare, l’ironia serve anche per scavare in modo più profondo all’interno delle cose. 

So che sei molto incuriosito dalla scienza e in particolare dagli scienziati “sfortunati”, mi parlavi di una delle tue ultime performances, E=mv2.
Mi interessa la scienza, ma non proprio in maniera specifica, nel senso che non ne capisco tanto, mi piacerebbe capirne di più.
Mi son reso conto, attraverso i miei studi, che c’è una parte di scienziati, chiamiamoli “eretici”, che sono stati emarginati, e questa emarginazione è stata realizzata proprio per contenere l’effetto divulgativo delle loro scoperte; scoperte che avrebbero cambiato le sorti del nostro pianeta. La base su cui ruota il tutto è che gli eretici affermano che siamo immersi nell’energia, mentre la scienza normale si è sviluppata trasformando la materia per ottenere l’energia. Per questo motivo si crea inquinamento, mentre si potrebbe utilizzare l’energia libera, giacché ne siamo immersi: basti pensare al solare, all’eolico; sono tutte energie a nostra disposizione, basta saperle utilizzare.
Oggi la gente è più informata, grazie ad internet, parlare di questi argomenti è meno eretico di un tempo; basterebbe conoscere bene la storia di Nicolas Tesla per capire tutto ciò, personaggio che ha sempre lavorato per l’umanità e mai per il profitto personale, emarginato perché rendeva le sue scoperte troppo disponibili all’umanità intera.
In questa performance ho riesumato delle scoperte fatte già negli anni ‘80, uscite, al tempo, sul giornale di Vicenza e che poi hanno raggiunto la stampa nazionale. Il tutto è depositato nell’archivio della biblioteca di Schio: Olinto De Pretto due anni prima di Einstein, nel 1903, ha formulato una teoria della relatività E=mv2. V sta al posto di c che è la costante della luce, posta invece come variabile: le ultime ricerche stanno dando ragione a De Pretto, anche Zichicchi [Antonio Zichicchi, fisico] un paio di mesi fa ha ammesso che effettivamente la luce non sembra essere costante, timide aperture a questi “eretici”. Io ne ho approfittato per fare questa performance, abbastanza spettacolare che non ha mancato di suscitare polemiche, anche nei giornali.
L’importante è far discutere, è far pensare. Io non voglio mai proporre una verità, propongo sempre delle verità che poi devono essere vagliate dal pubblico: anzi una stessa verità la propongo in modo che diventi più verità, che diventi quasi un paradosso. Siamo abituati ad avere una verità unica: no la verità è sempre in continua mutazione, non c’è mai un qualcosa di sicuro. E questo lo vediamo dalla storia dell’uomo fino adesso, quello che sembrava sicuro un tempo poi è stato smentito.




In Detenzione (2000) ti immedesimi in un detenuto. È una performance nella quale “fai passare il tempo” in attesa della scarcerazione, attesa che diviene appunto essenza della detenzione. Come sei riuscito, e riesci, a gestire i tempi, il ritmo nelle tue performances?
In detenzione, a proposito di tempo, ho sempre sottolineato che ho impiegato un anno e mezzo per recuperare materiali, finché alla fine, stanco, ho buttato via tutto. Mi sono reso conto che se volevo davvero parlare della detenzione, dovevo far affiorare la vera essenza, dovevo offrire l’attesa. La detenzione è un’attesa, non solo attesa della scarcerazione, ma anche attesa di una buona notizia, attesa di una lettera, di un pacco, di un regalo, di una visita, di un qualcosa di diverso che rompa la monotonia della carcerazione. È proprio l’attesa il cardine principale, e io l’ho offerta facendo aspettare il pubblico: mi sono messo a letto con una casacca che mi individuava come carcerato e li mi giravo, allora la gente pensava “adesso succede qualcosa”, accendevo la luce dell’abat-jour, la spegnevo, e intanto il tempo passava. E la gente è rimasta lì a guardarmi per più di mezz’ora.
Con questi piccoli accorgimenti riesco a mantenere vivo l’interesse, a tenere un ritmo alto nelle performances. Ho cominciato la performance, adagiato a letto, con la consapevolezza che ci sarebbe stata della gente che se ne sarebbe andata.
Il trucco è quello che oltre al misero letto spoglio c’era anche un comodino e un abat-jour, questo mi dà la possibilità, quando il pubblico è ormai stanco di offrire un’opportunità di stare li, attiro l’attenzione, piccole sciocchezze minime, che servono ad arrivare ad una durata di almeno una mezz’ora. Chiaro che mi metto nell’ottica del pubblico, penso come loro, immagino cosa può succedere. Nel finale di questa performance mi alzo e vado a dare la mano al pubblico.
In un'altra performance, “Acqua in bocca”, ho utilizzato questa modalità. In un contesto un po’ particolare, all’inaugurazione di una mia personale in Serbia, dopo che ha parlato la direttrice, mi vien data la parola. Era anche presente la televisione serba: arriva l’intervistatrice che mi dà la parola e io faccio finta di parlare, mi fermo, boccheggio, ci penso, faccio per parlare; insomma un lavoro sull’esitazione ma non pronuncio una parola. Alla fine m’inchino e l’interprete spiega che ho eseguito una performance.
Anche qui ho utilizzato l’espediente dell’attesa, ma non ho abusato, ho tenuto l’attenzione il giusto, 2-3 minuti. Anche questa ha avuto il suo effetto: spiazzamento, la gente non sapeva più cosa pensare, tutti pensavano che fosse successo qualcosa, che mi stessi sentendo male. Ecco che il pubblico s’imbarazza.
In tutte le mie performance c’è un lavoro sul tempo, anche il tempo di silenzio tra una parola e un’altra, lo medito, me lo organizzo, me lo pre-imposto. Dire tutto di fila oppure lentamente, questo può cambiare l’effetto, il significato della frase.

Arriviamo al punto. Sono rimasto molto colpito da una delle tue ultime mostre personali, Ecco il Punto! (2003), allo spazio espositivo “Liba Arte Contemporanea” a Pontedera, Pisa. Ho in mano il catalogo, parte integrante dell’esposizione se non sbaglio, quali altre opere erano presenti? Qual è stato il tuo intento nel crearle?
In questa mostra il punto è visto sul piano ironico da vari punti di vista: ho preso in esame 10 punti.
Faccio una carrellata: uno era il catalogo, tutta la catasta di cataloghi, un altro modo di vedere i punti, i punti della spesa, da catalogo, da collezione. Un altro era “Punto fisso”: un punto disegnato sul muro con la matita. Un'altra opera era “Punto e a capo”: ho preso il libro di Angela Vettese “Capire l’arte contemporanea” e l’ho cancellato tutto con il bianchetto lasciando fuori solo i punti. Un'altra ancora s’intitolava “Due punti”: un libro con due fori alla stessa distanza delle mie pupille in modo che quando è aperto si instaura un rapporto di parallelismo ipotetico con i miei occhi. “Far punto”: un cilindro riempito di acqua al centro della galleria dove ci si poteva specchiare, ecco che emerge il concetto di narciso che fa il punto sulla sua situazione estetica.
Dieci punti diversi sul punto. Ho fatto anche la performance: leggevo il mio testo all’interno del catalogo.




Quanti punti dai alla nostra rivista, il pentagramma?
[ride] mi piace quest’idea di collaborazione tra di voi, iniziare a fare qualcosa, lo vedo come un esercizio di stile il vostro, lo fate per piacere, e per fare qualcosa per la cultura e nella cultura. Tutte le esperienze vanno a riempire il contenitore che è la nostra persona e alla fine tutte le esperienze rimangono come quantità ma soprattutto come qualità: continuate così!

A.L.



L'inizio e il punto dello shoegaze: i My Bloody Valentine

turn my head / into sound [Sometimes]



Nel panorama musicale i primi anni ’90 sono stati un periodo molto fecondo, con un’esplosione di nuove idee e generi. A far da padrone fu soprattutto il grunge di Seattle, ma nello scenario più underground questo fu il periodo d’oro dello shoegaze, genere musicale che in realtà nasce qualche anno prima con i Jesus and Mary Chain, ma che trova il punto di massima espressione con l’uscita dell’album Loveless dei My Bloody Valentine nel 1991, seguito nel 1993 da Souvlaki degli Slowdive.
La peculiarità che contraddistingue lo shoegaze è il suono delle chitarre, distorte e nervose, con un tormento continuo della pedalina e lo sguardo dei chitarristi fisso su di essa, come se si stessero guardando le scarpe (da qui il termine shoegaze). In questo modo il suono della chitarra raggiunge punti molto alti, e la sua distorsione crea il cosiddetto muro sonoro: un suono continuo, stabile, senza riff. La voce di conseguenza perde importanza, e nella maggior parte delle canzoni infatti essa funge soprattutto da riempimento, da accompagnamento al suono delle chitarre. Si tratta comunque sempre di parti vocali impalpabili, ineffabili, tristi, più che voci echi che creano un'atmosfera suggestiva e quasi mistica.
La potenza musicale dello shoegaze viene avvertita soprattutto nelle performance live, durante le quali il muro sonoro ha ampio spazio di diffusione, e nelle quali i My Bloody Valentine in particolare sono noti per aver raggiunto la frequenza più alta nel suono delle chitarre.

I gruppi shoegaze, ad eccezione forse dei My Bloody Valentine, non raggiunsero il successo commerciale, nonostante l’apertura di quel periodo dei media verso i nuovi scenari musicali (mi riferisco in particolare alla programmazione di MTV), ed essi andarono così a sbattere contro il proprio muro sonoro, forse penalizzati dalla limitatezza di melodie cantabili o ballabili tanto apprezzate dalle masse.
Alcune band che agli esordi rientravano nel movimento shoegaze, come i Blur o i Catherine Wheel, raggiunsero il successo orientandosi verso altri scenari musicali, più orecchiabili.

 
Il fenomeno ad ogni modo non è morto del tutto, e ha avuto una sua rinascita nell’ultimo decennio (cito soprattutto gli Amusement Parks on Fire e gli Alcest, ma vi sono molte altre band interessanti), con le variazioni del caso come la riduzione dell’impatto del muro sonoro e l’aumento delle melodie e del suono della voce. Lo shoegaze, nonostante la scarsa diffusione, ha lasciato sicuramente un’impronta importante nella musica alternativa degli anni ’90, e forse deve il suo fascino proprio al fatto di essere rimasto un fenomeno di scarso appeal per il pubblico più commerciale.

L'album Loveless dei My Bloody Valentine rimane comunque il frutto più rappresentativo dello shoegaze, capolavoro indiscusso del gruppo e del genere. Per la realizzazione dell'album molto si deve a Kevin Shields, chitarrista e compositore di tutte le musiche della band, che riuscì con 11 tracce a creare qualcosa che mai prima si era udito, 11 tracce dalla portata innovativa straordinaria, 11 tracce che dalla prima all'ultima permettono all'ascoltatore di perdersi in un suono quanto mai onirico e sfuggente. Un album che fa perdere ogni contatto con la realtà, che trasporta in una dimensione extraterrena.
E Sometimes è il capolavoro indiscusso del disco, anche se forse nel mio giudizio sono influenzata da un film, Lost in translation, dove una delle scene più belle è accompagnata proprio da questa canzone. Il muro sonoro è ovviamente il grande protagonista: la voce, quasi sussurrata, viene coperta da una stratificazione di chitarre stranianti, tanto che in alcuni punti sembra quasi scomparire, il tutto accompagnato da un basso vibrante. Una marea di suoni che non risulta però mai caotica, anzi tutto è perfettamente in armonia, sospeso in un ordine ancestrale.

Sometimes è il manifesto di quest'arte d'avanguardia chiamata shoegaze, poco apprezzata dal pubblico delle masse, ma del resto si sa che l'arte non è per tutti, così come lo shoegaze non è per tutti ma solo per coloro che accettano di farsi inghiottire da questo un muro sonoro e intraprendere così un viaggio ad occhi aperti.

D.C.



Sylvia Plath: "Punti fermi"

Una ragazza bionda, alta, sorridente, con un filo rosso sulle labbra. Vestito? alla moda naturalmente. Piega dei capelli? Secondo i dettami dell’epoca, chiaro.
La guardi e potresti pensare a una classica giovane donna benestante fotografata nel più magnifico periodo della sua vita. Non più ragazzina ma neppure entrata nella fase della maturità. Un bellissimo futuro davanti a sé. Tutto da fare, tutto da costruire, e le capacità per farlo.
Ma le chiavi per costruirlo?

Sylvia Plath pubblica la sua prima poesia a otto anni. Entra allo Smith College con una borsa di studio nel 1950, pubblica nel ‘63 un romanzo semi-autobiografico La campana di vetro,  e arriva all’università di Cambridge. Continua a pubblicare poesie. Intanto tiene anche un diario, che scrive fin da quando era bambina.

A Cambridge conosce il poeta Ted Hughes, un bell’uomo, i due si sposano, fanno qualche viaggio per lavoro, e dopo qualche anno arrivano anche due bei bambini.

Ora nella foto Sylvia è abbracciata a Ted o tiene in braccio i suoi figli. E’ cresciuta, ha raggiunto dei successi nella sua vita: niente di meglio per una donna degli anni ’50 del resto: studio e lavoro secondo le proprie passioni, riconoscimenti, un matrimonio, famiglia.
Potrebbe desiderare altro? Vita in ascesa.

Punti fermi.

Ma la ricerca di punti fermi spesso è così aleatoria che sembra difficile mantenere quelli che si sono già raggiunti e impossibile tendersi a nuovi.

“Niente è reale eccetto il presente, e io mi sento già soffocare sotto il peso dei secoli. Un centinaio di anni fa un ragazza ha vissuto come vivo io[...] L’istante sublime, la fiamma che consuma arriva e subito scompare: sabbie mobili, sempre. E io non voglio morire”.

Una sensibilità eccessiva e un’eccessiva tendenza all’introspezione interiore, una forza di volontà oscillante, un volere, volere tanto, volere troppo da se stessi. Perché quando si diventa il peggior giudice di sé, non c’è nulla che ti possa salvare.

E’ così che l’11 febbraio 1963 dopo aver preparato del pane e burro per i figli, aver sigillato  porte e finestre con del nastro adesivo e aver scritto l’ultima poesia, Sylvia apre il gas, e con la testa nel forno decide di mettere un punto, fermo, alla sua vita.


G.D.C.


 


"Io sono verticale" (1961)

Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale
non sono albero con radici nella terra
a succhiare minerali e amore di madre
così da luccicare di foglie ad ogni marzo
né sono bella come un angolo di giardino
che desta meraviglia per splendore di colori
senza sapere che presto sfiorirà.
Al mio confronto un albero è immortale
e la corolla di un fiore meno alta ma più ardita
vorrei del primo la lunga vita dell’altro l’anima viva.

Stanotte nella luce infinitesimale delle stelle
i fiori e gli alberi spandono profumi freddi
io li attraverso ma loro non si accorgono di me
a volte penso che mentre dormo
quando i pensieri svaniscono
assomiglio a loro perfettamente.
E’ più naturale per me stare supina
allora io ed i cieli parliamo senza riserve
io sarò utile quando resterò così per sempre
finalmente
gli alberi si piegheranno fino a toccarmi
e i fiori avranno un attimo (solo) per me.

martedì 7 febbraio 2012

IL PENTAGRAMMA: NUMERO II° - IN USCITA IL 15 FEBBRAIO 2012 "IL PUNTO"

IL PENTAGRAMMA: NUMERO II° - IN USCITA IL 15 FEBBRAIO 2012


"IL PUNTO"

 


Tutto iniziò così:

punto --> ECCO IL PUNTO --> punto fermo --> SYLVIA PLATH --> punto d'appoggio --> ARCHIMEDE --> punto massimo --> SHOEGAZE 

punto

bene ragazzi, facciamo il punto (PUNTO)