cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

sabato 16 giugno 2012

I piccioni di nonno Toni

«Ascolta: “impegolato nel vischio c’era un povero piccione, uno di quei grigi colombi cittadini, abituati alla folla e al frastuono delle piazze. Svolazzando intorno, altri piccioni lo contemplavano tristemente, mentre cercava di spiccicare le ali dalla poltiglia su cui s’era malaccortamente posato.”
Questa storia mi ricorda mio papà..quella volta dell’ospedale, ti ricordi che ridere? E il comodino? E le briciole sui coppi? Ti ricordi?»
«Certo che mi ricordo» gli rispose la moglie.
«Quale piccione?! Papà! Quale piccione?!»
«Mi sono vergognata tanto quella volta...»
«Papà, quale piccione?» chiese insistentemente la bambina.

Ma guardiamola meglio questa bambina, zoomiamo, eccola: occhi blu; no, grigi; capelli castano chiaro, frangetta, denti un po’ storti. Sorride: gliene mancano almeno due per arcata, sia a destra che a sinistra. È davvero una bella bambina.

«Ma come? Non sai la storia del piccione? È sempre la stessa, non ho voglia di raccontarla ancora. Questa volta ascoltiamola da chi già la conosce per bene...»
«Però non devi interrompere come al solito, papà» sentenziò la bambina.

Per poter raccontare la storia del piccione è necessario tornare indietro di molti anni. Era il 1992 quando un anziano signore, un nonno per la precisione, nonno Toni, venne ricoverato in ospedale. Doveva essere operato al cuore. Non era un’operazione troppo preoccupante o invasiva, però si sapeva che il vecchino sarebbe dovuto rimanere nella stanza numero 18 del settimo piano del Sant’Angelo per diversi giorni. La sua preoccupazione più grande era la piccionaia che aveva da poco costruito nel giardino che stava dietro casa; vicino all’orto. Questo nonno Toni aveva fatto la guerra e patito la fame; così, quando gli capitava di riuscire a catturare un piccione, lo chiudeva tra quelle quattro mura di legno da cassetta della frutta e plastica verde del cortile, lo nutriva con un po’ di briciole, qualche avanzo e, rimpolpate un po’ le cosce, tan! gli tirava il collo!

«Pensati che salendo sulla 500 color ocra per andare in ospedale, tuo nonno continuava a ripetermi “mi raccomando, i piccioni!”»

Mentre Toni era ricoverato in ospedale ai piccioni non accadde nulla di strano, ma egli continuava a vivere col timore di tornare dopo qualche giorno alla sua piccionaia e di trovarvi un mausoleo, o peggio, di non trovarvi nulla. Venne il giorno dell’operazione, venne il giorno seguente l’operazione e quello dopo ancora; il paziente della stanza numero 18 del settimo piano del Sant’Angelo stava bene: “è andato tutto per il meglio” dicevano i medici, “ma deve riposare”; soprattutto il buon nonno Toni non doveva muoversi troppo.
Una mattina accadde che Toni venne trovato dalle infermiere intento a fare il verso a dei colombi che si aggiravano sul suo davanzale. Il povero nonno venne rimproverato da tutti e da quel giorno cambiò atteggiamento.

«Subito pensavamo che si fosse offeso, anche tua nonna era preoccupata, non riusciva a capirlo. Voleva sempre stare da solo» aggiunse il padre ascoltando il racconto divertito.

Capitava che dopo il lavoro la moglie, i figli, i nipoti più grandi o qualche amico andasse a trovarlo ma lui, soprattutto se era ora di pranzo, li sbolognava in fretta con le scuse più ridicole.

«E un pomeriggio lo vidi! Era davanti alla finestra. Era gennaio e faceva freddissimo, ma lui stava in pigiama davanti alla finestra aperta a lanciare briciole ai colombi...»
«Papà! Non devi interrompere!» proruppe la bambina.

Toni era davanti a quelle finestre e fissava i colombi, quando il più sventurato si avvicinò al nonno e lui, sporgendosi, riuscì ad afferrarlo. La gioia, la speranza e anche un po’ di freddo ridiedero colore al volto stinto del vecchino: col piccione tra le mani corse all’armadio. Lo fissò, probabilmente pensando di poterci nascondere l’uccello, ma quasi subito virò verso il bagno per cercarvi un posto più sicuro. Tornò fuori col piccione ancora in mano, si guardò attorno ormai privo di speranze e andò a sbattere con la gamba destra contro la porticina del comodino di latta verde e bianco di fianco al letto. Ebbe un lampo di genio, lo svuotò delle tre cose che aveva e ci ficcò dentro l’uccello. Era fatta! Tirò un sospiro di sollievo, ma ecco che in quel momento entrò il figlio maschio che aveva assistito a tutta la scena. Scoppiò il pandemonio: subito ci furono le risate, grasse risate seguite da mal di milza per lo sforzo e quasi da asma per la mancanza di fiato; poi però il giovane proruppe con un “devi lasciare il piccione” e cominciò ad elencare al vecchio nonno tutti i motivi per cui non avrebbe potuto tenere l’uccello nascosto dentro il comodino. Il nonno Toni non ne voleva sapere, si avvicinò con l’indice destro alzato alla punta del naso del figlio e gli sussurrò “se liberi il piccione ti diseredo!”, non rideva. I due si guardarono e il figlio scoppiò in un’altra risata fragorosissima cui accorsero la nonna e la nuora. Si tentò di nascondere loro cos’era successo, ma dal comodino arrivavano rumori stranissimi. La finestra della camera ancora aperta, il pezzo di pane sul davanzale, gli sbattiti d’ali contro le pareti di latta che risuonavano nella camera fecero spalancare la bocca della vecchia nonna: “non ci credo” disse. Calò il silenzio.

Si sentivano delle voci dietro la porta della stanza, delle rotelle, erano le rotelle di un letto d’ospedale. Sì, quel pomeriggio doveva arrivare il compagno di stanza del nonno Toni. Il figlio corse a chiudere la finestra, lanciò il pezzo di pane e tirò la tenda. Il vecchino si sdraiò a  letto senza dire una parola. Entrarono le infermiere col nuovo paziente seguite da due donne. I quattro abbozzarono un sorriso. Era il panico, che figura avrebbero mai fatto se si fosse trovato un piccione dentro il comodino?! Bisognava liberarsene il più in fretta possibile, ma il proposito si rivelò piuttosto arduo a mantenersi. Il signore, tale L. Bosio, era fermo a letto e, per quanto le accompagnatrici e le infermiere avessero l’aria di andare di fretta, egli sarebbe sicuramente rimasto lì per diverse ore. L’uccello chiuso dentro il comodino continuava a sbattere le ali e i presenti nella stanza tradivano con evidenza una certa perplessità. Quando, fortunatamente dopo poco tempo -che ai quattro parve lunghissimo-, le presenze femminili si dileguarono, la nonna si decise e finse di voler portar via della biancheria sporca chiusa dentro il comodino. Come si può facilmente immaginare l’impresa fu alquanto problematica, ma grazie alla collaborazione del figlio e della nuora il piccione venne avvolto in una maglietta -povero animale era ancora vivo- e portato di gran fretta fuori dall’ospedale. “Ancora una cosa..” aveva detto il buon vecchio nonno Toni alla moglie “ormai che ci sei, portalo a casa e chiudilo nella piccionaia”. Lei, che lo amava più di tutto al mondo, fece anche quello: tornò alla sua abitazione con un piccione semi-vivo avvolto in una maglietta e lo liberò nella piccionaia del giardino dietro casa.

«Aspetta aspetta, non è ancora finita per il piccione» disse il padre alla bambina.

Quando la nonna liberò l’animale dovette prendere atto del fatto che l’uccello era ormai esanime; vegetava in uno stato che altalenava tra la vita e la morte. Bisognava farla finita, ma come fare? Di ‘quelle cose’ si era sempre occupato il vecchio nonno Toni e lei non se la sentiva veramente di tirare il collo a quel piccione. Così le venne in mente la vicina di casa, tale Gina che, vedova ormai da diversi anni, era solita arrangiarsi anche per quelle questioni. Bussò alla sua porta: “ti prego fai tu perché io non ci riesco”, le disse. La vecchia Gina afferrò il piccione, la mano sinistra per le gambe, la destra per il collo. Tirò. La vecchia Gina tirò con troppa forza. Il collo del piccione si ruppe, sì si ruppe sicuramente, ma con esso si staccarono anche le zampette del povero animale. Impietrita la nonna guardava la vecchia Gina con la testa del piccione nella mano destra e le zampette nella sinistra: “Almeno non ha sofferto” esordì la vecchia Gina.

«Ah ah ah! Papà, ma davvero è andata così?? E poi il nonno è rimasto contento almeno?»
«Tuo nonno restò in ospedale per un’altra settimana e quando tornò a casa il piccione era già stato mangiato da diversi giorni. Non se ne accorse neanche; aprendo la piccionaia scoprimmo che non sapeva nemmeno quanti piccioni avrebbe dovuto avere..»

Dall'arte dei rumori di Russolo al noise dei Sonic Youth

1910. Parigi. Due distinti signori parlano all'interno di un raffinato salotto. Questi due signori sono Luigi Russolo e Filippo Tommaso Marinetti. Il primo è pittore e compositore, il secondo poeta, scrittore e pittore. Entrambi sono esponenti di quell'avanguardia storica chiamata Futurismo.
Inizio anni '80. New York. Un giovane studente universitario, Thurston Moore, e la sua bella e bionda fidanzata, Kim Gordon, non pensano ad altro che alla musica. Dall'incontro dei due con il chitarrista Lee Ranaldo e con il batterista Steve Shelley nascono i Sonic Youth.
Tra le due esperienze: rumore, rumore e ancora rumore.
Luigi Russolo, intorno agli anni '10 del Novecento, dà avvio alla cosiddetta arte dei rumori. Il compositore, ispirato dal fermento futurista che l'amico Filippo Tommaso Marinetti stava mettendo in atto tra Francia e Italia, elabora una nuova e rivoluzionaria concezione di suono, o meglio del far musica.
Russolo, stanco di sentire elogiare solo i suoni puri, dolci, armoniosi della tradizione - per lui quanto mai banali e riduttivi - decide di conferire dignità al rumore. E' quest'ultimo che deve essere considerato espressione della vera musica, anzi esso è musica.
Nel manifesto del 1913, l'Arte dei Rumori, il futurista Russolo coglie qualcosa di davvero straordinario: ai suoi occhi il silenzio degli antichi, con la nascita della società industriale, ha perso ogni valore, ogni attrattiva. Grazie alla Rivoluzione industriale è invece finalmente nato il rumore, con tutta la sua forza e portata semantica. Non è il suono tradizionale, ma il rumore il solo in grado di esprimere le vere sensazioni dell'uomo.
La società industriale, con tutte le sue macchine e i suoi arnesi, quale grande opportunità è stata per gli uomini? Per Russolo le patetiche e sciocche abitudini musicali potranno finalmente essere superate:
"Conoscete voi spettacolo più ridicolo di venti uomini che s'accaniscono a raddoppiare il miagolio di un violino?"
Ecco allora la necessità di dare spazio a fischi, sibili, sbuffi, rombi, scoppi, tonfi, boati, stridori, scricchiolii, fruscii, ma anche grida, strilli, gemiti, urla, ululati, risate, singhiozzi. L'uomo può finalmente godere di "[...] un'inebriante orchestra di rumori". Russolo arriva addirittura a creare degli strumenti fuori dal comune, i cosiddetti intonarumori, grandi cassette di legno dalle quali, muovendo una manovella, esce ogni tipo di rumore. Altro che violini, altro che pianoforti, l'uomo moderno deve circondarsi di crepitatori, gorgogliatori, rombatori, scoppiatori.
Il rumore è qualcosa di davvero straordinario, qualcosa da cui l'uomo può attingere per trarre energia e piacere:
“Sarò soddisfatto se riuscirò a convincerti che il rumore non è sempre sgradevole e fastidioso come tu credi e affermi, e che anzi, per chi lo sappia capire, il rumore rappresenta una fonte inesauribile di sensazioni a volta a volta squisite e profonde, grandiose ed esaltanti.”

Luigi Russolo può essere considerato un visionario di quel genere musicale che comincerà ad emergere intorno agli anni '60 del '900, per esplodere poi con tutta la sua forza negli anni '80 e definito ormai comunemente noise.


Principali esponenti di questo genere sono sicuramente i Sonic Youth, anche se non bisogna dimenticare che influenze noise sono penetrate anche nei Velvet Underground, nei Dinosaur Jr., negli Swan e in molti altri gruppi ancora.
I Sonic Youth però hanno sicuramente fatto del rumore uno dei tratti distintivi della loro musica: dissonanze, feedback, distorsioni continue, effetti elettrici, accordi ripetuti in modo ossessivo.
Una musica d'avanguardia, quella dei Sonic Youth, che lascia spazio a performance live in cui improvvisazione e rumore sono le parole d'ordine. Ecco allora che Kim Gordon non ci pensa due volte a calpestare il suo basso per trarne effetti quanto più possibile stranianti, a grattare, malmenare quelle corde. Così come Ranaldo e Moore producono con la chitarra ogni sorta di distorsione estrema.
Nella poliedrica produzione del gruppo, che non è stato comunque immune da altre influenze (grunge, no-wave, post-punk), spicca Daydream Nation, l'album con cui meglio di ogni altro i Sonic Youth hanno saputo sfruttare le potenzialità e le infinite sfaccettature del rumore. Capolavoro indiscusso del disco, e del noise, è Trilogy, vera e propria apologia del rumore, quattordici minuti di fragore disparato.
Quello dei Sonic Youth è un rumore in grado di creare un'atmosfera struggente e malinconica, e al tempo stesso capace di esprimere un'energia vitalistica inaudita.

La cultura del rumore - nata con Russolo nell'ambito del Futurismo e giunta fino a noi filtrata attraverso la musica dei Sonic Youth - ci insegna che molte spesso sono le strade meno convenzionali, meno tradizionali, le sole in grado di  penetrare con forza nell'immaginario collettivo e lì rimanervi, per secoli.


Ascolti consigliati: Daydream Nation, 1988 Sonic Youth
                          Risveglio di una città, 1913 Luigi Russolo


D.C.

Il rumore dell’”Uragano”

Il sedicesimo round di Rubin “Hurricane” Carter
Philadelphia, 14 dicembre 1964. Rumore. La folla è imbestialita, i fischi assordanti. Il match valido per il titolo dei pesi medi di boxe si è appena concluso, il verdetto ora spetta ai giudici. Bianchi, naturalmente. Da una parte Joey Giardello, il campione in carica, bianco. Dall’altra Rubin “Hurricane” Carter, lo sfidante, nero. Carter ha nettamente dominato il match, e più volte il campione è andato vicino al knock out. Il verdetto sembra scontato: vince Joey Giardello, bianco.
Da quel momento la carriera agonistica di Carter subisce una parabola discendente che lo porta presto a scomparire dalla scena. Silenzio.
Paterson, New Jersey, 17 giugno 1966. Rumore. Spari nella notte e sirene spiegate irrompono nella calda notte del New Jersey: due uomini sono morti e una donna è rimasta gravemente ferita in una sparatoria avvenuta al “Lafayette bar and grill”, testimoni hanno visto allontanarsi i malviventi su una macchina bianca. Una macchina come quella sulla quale viaggiavano quella notte Rubin Carter e John Artis. I due vengono arrestati, ma nessuno dei testimoni, tra cui un sopravvissuto alla sparatoria, riconoscono in loro gli assassini. Ancora una volta, il verdetto sembra scontato: la giuria, bianca, condanna all’ergastolo i due, neri.
Silenzio. L’”Uragano” nell’isolamento della sua cella si sente come un topo in gabbia, continua ad allenarsi, a sfogare la sua rabbia contro il vuoto e il silenzio. Decide di scrivere una biografia che racconta la sua versione della storia, una versione che la giuria non ha voluto ascoltare: nel 1974 esce così “The Sixteenth Round: From Number 1 Contender to #45472”. Il libro riporta il rumore nella vita di Rubin Carter, un rumore di ribellione e sconcerto per l’ingiustizia che ha sùbito il campione; Bob Dylan renderà immortale la figura dell’”Uragano” Carter dedicandogli Hurricane, forse la più bella canzone scritta dal cantautore. Personalità di spicco, tra cui Muhammad Alì, si muovono per lui. Tutto questo porta ad un secondo processo, tanto chiasso per nulla, il verdetto rimane il medesimo.
Il silenzio della cella ora sembra definitivo per Rubin, un silenzio di tomba. Ma il rumore più forte arriva dal cuore di un ragazzino di colore, Lesra Martin, che vive in Canada con la sua famiglia adottiva. Lesra crede alla versione di Carter e si sente in dovere di fare qualcosa per aiutarlo; gli scrive, lo va a trovare in carcere, e sarà quel ragazzino innocente a risvegliare nell’”Uragano” assopito la voglia di rialzarsi, di combattere ancora una volta l’ultimo round. Così, insieme alla sua famiglia, si trasferisce vicino a Rubin e insieme ricostruiscono passo per passo, menzogna per menzogna quella terribile notte di giugno.
La falsità delle accuse appare subito evidente, il processo era stato corrotto così come i due principali testimoni oculari, Alfred Bello e Arthur Dexter Bradley. “Non dimenticarti che sei bianco, farai un favore alla società”, parafrasando Bob Dylan. Lesra e la sua famiglia adottiva, insieme all’”Uragano” rinato, ottengono un processo d’appello alla Corte Federale: finalmente, Rubin ottiene giustizia, viene rilasciato e la sua condanna cancellata per “evidenti pregiudizi razziali”. È il 1985, Rubin Carter è stato 18 anni in cella per un reato che non aveva commesso.
1993. Rumore. Il World Boxing Council consegna la cintura di campione del mondo dei pesi medi a Rubin “Hurricane” Carter. Con 29 anni di ritardo rispetto a quella notte di Philadelphia dove tutti, tranne i giudici di gara, avevano proclamato Rubin vincitore. Il più piccolo riconoscimento ad un uomo che, nonostante tutto, nessuno è riuscito a mettere al tappeto. Ma nessuna cintura potrà mai cancellare quei 18 anni di dolore.


M.F.


Visione consigliata: nel 1999 è uscito un film sulla vicenda in questione, Hurricane – Il grido dell’innocenza di Norman Jewison, interpretato da Denzel Washington. Uno straordinario affresco emotivo che, tra realtà e finzione, non può lasciare indifferenti.
Ascolto consigliato: chiunque abbia scritto qualcosa su Rubin Carter dopo il 1975 ha un debito di riconoscenza verso la prosa di Bob Dylan nella sua Hurricane, il modo migliore di avvicinarsi all’”Uragano” Carter.

Il rumore delle parole

Il rumore delle parole può essere devastante, soprattutto quando una semplice frase è in grado di interrompere il normale circolo dei pensieri e di far slittare su tutt’altro piano l’idea che ci eravamo fatti della nostra vita, del nostro quotidiano. 
Può essere un rumore cieco, così forte da rendere insensibili e inermi, increduli e sospetti. Può essere assordante al punto da sovrastare gli altri suoni, le altre voci e tutto ciò che avevamo vissuto e pensato prima del suo esplodere.

Immagino sia proprio questo, un’esplosione, l’effetto creato dalle parole di un medico di fronte a un padre: “ Suo figlio probabilmente è autistico”.




Un’esplosione di rumore capace di creare un deserto, di azzerare e poi di far ripartire. Ricostruire dalle fondamenta tutta la propria vita.
Ma che sia stata ancora un’esplosione quella scaturita dall’idea di Franco Antonello di dare il via a un viaggio attraverso gli Stati Uniti e  l’America del Sud con Andrea?
Che sia stata la volontà di rendere un po’ meno forte per un attimo il frastuono di quelle parole, o la volontà di crearne uno ancora più intenso che desse l’opportunità ad Andrea di una vita non da “ragazzo autistico”, ma semplicemente da ragazzo quale è?

Fulvio Ervas, con il suo ultimo romanzo, Se ti abbraccio non aver paura, ha raccolto l’esperienza di un padre di Castelfranco Veneto, Franco Antonello, e del suo viaggio in moto con il figlio Andrea attraverso le Americhe.
Ed è proprio il fatto che Andrea sia autistico che ha fatto sì che questo viaggio potesse diventare una vera e propria sfida, un manifesto indice di cambiamento, una volontà di “smuovere” dall’interno e in prima persona le cose e, infine, di iniziare a ricostruirle.


G.D.C.



Letture consigliate: Fulvio Ervas, Se ti abbraccio non aver paura, Marcos y Marcos, 2012

Rumore per le mie orecchie: Aphex Twin


Anni fa, assieme ad un amico, ci ritrovavamo spesso al Pick-Up, un negozio di dischi in una piazzetta di Bassano. Ricordo che all’epoca trascorrevamo pomeriggi interi dentro quel negozio, solamente a guardare le copertine dei cd, a raccontarci aneddoti sui nostri musicisti preferiti e, a volte, semplicemente perché era ben riscaldato e accogliente. In genere tutta la musica “commerciale”, gli ultimi arrivi, tutto ciò che faceva tendenza, si trovava al piano di sopra, appena entrati; al piano sotterraneo era invece relegata la musica classica, il metal e un piccolo angolino catalogato “sperimentale”. Fu quello ad attirare la nostra attenzione un giorno e, tra i molti cd, uno in particolare.
La copertina ritrae delle bambine in piedi con una maschera raffigurante la faccia di un uomo che ride. Trovammo altri album con lo stesso grugno ridente: “è sempre lui”, pensammo, ma quello che ci fece sceglier fu il titolo: Come to Daddy, “Vieni da Papino”. Mettendo assieme i nostri spiccioli uscimmo dal negozio con il misterioso album e, pedalando più in fretta che potevamo, una volta arrivati a casa...




“Rumore” fu la prima parola che mi uscì di bocca. Troppo veloce, troppo distorta, troppo battuta, troppo fuori ritmo. Non avevo mai sentito nulla del genere.

Richard James, classe ’71, irlandese, è meglio conosciuto con il suo pseudonimo Aphex Twin ma ha inciso centinaia di pezzi sotto altri nomi: AFX, Caustic Window, GAK, The Tuss.
Fondamentale per la nascita e lo sviluppo di generi come l'ambient-techno e la drum'n'bass, Aphex Twin comincia fin da giovanissimo a produrre musica e a suonare nei numerosi pub della Cornovaglia.        
Dopo aver prodotto alcuni pezzi in collaborazione con alcuni dj – tra i quali spicca la potentissima
En Trance to Exit -  fonda assieme a Grant Wilson-Claridge  l’etichetta discografica Rephlex Records  che mira alla promozione della musica underground acid e in generale di quei generi house “dimenticati da alcuni o troppo nuovi per altri”.

Aphex Twin crea così il suo personalissimo stile, di difficile inquadramento e talvolta oltre i limiti dell’ascoltabile: IDM, acronimo per Intelligent Dance Music “penso che sia davvero divertente avere dei nomignoli di questo tipo, è come dire -questa musica è intelligente, la tua è stupida!- Mi fa ridere, io non uso nomi, etichette, se qualcosa mi piace lo dico, altrimenti non dico nulla.”

Nel ’92 esce Selected Ambient Works , un album che fonde assieme le sonorità ambient “classiche” di Brian Eno e i pattern melodici techno.
Con ...I Care Because You Do, preceduto dal singolo Ventolin, Aphex Twin esplora una miriade di altri generi, dalla melodica Acrid Avid Jam , fino ad arrivare alla “ouverture sinfonica” Next Heap With che chiude magistralmente una pietra miliare della musica elettronica.
Passando per Richard D. James Album, quarto album ufficiale, si arriva fino alla geniale Windowlicker, pezzo forse più noto data la collaborazione con l’artista visuale Chris Cunningham. Nel video si gioca con il significato di Windowlicker, letteralmente “colui che lecca i vetri, colui che guarda le vetrine dei negozi senza comprare nulla”, appunto mettendo in scena alcuni ragazzi che guardano famelici due provocanti ragazze.
Tra il regista inglese e il musicista si instaurerà una collaborazione che continuerà anche durante alcune performance live nelle quali musica e video si fondono assieme in maniera magistrale. Anche il video del pezzo Come to Daddy è firmato dallo stesso video maker il quale, inserendo chiari riferimenti alla copertina, mette in scena alcune pazze “bambine Aphex Twin” che creano disagi e rumori in una palazzina abbandonata nei sobborghi londinesi.

Nel 2001 esce l’ultimo album ufficiale, drukQs, frenetico e perfetto in ogni battuta, con diversi accenni alla musica per pianoforte preparato – creato da John Cage, per il quale lo stesso Richard nutre un profondo rispetto. All’interno sono presenti numerosi “intervalli”: dalla segreteria telefonica dei genitori che cantano al figlio “happy birthday” ad incidenti domestici campionati, rumori e interessantissimi spunti tecnici. Da non tralasciare la malinconica Avril 14th, diventata anche colonna sonora del film Marie Antoinette (2006) di Sofia Coppola.

Aphex Twin dopo il 2001 produrrà un solo album di remix (26 Mixes For Cash) e un altro che racchiude le migliori tracce della collana degli 11 Analord (Chosen Lords). Continuerà a collaborare con Chris Cunningham, questa volta adattando la sua Afx237 v.7 per il folle cortometraggio Rubber Johnny (2005).

Un paio d’anni fa ho avuto l’occasione di vedere una sua performance live ad un festival di musica elettronica a Livorno. Finito il concerto ho avuto il fischio alle orecchie – sì, il fischio di Ventolin– per tre giorni.


A.L.


Ascolto consigliato: Come to Daddy, 1997 Warp Records
                            drukQs, 2001 Warp Records

Visione (s)consigliata:Chris Cunningham Rubber Johnny, 2005
                               Chris Cunningham Come to Daddy, 1997

venerdì 1 giugno 2012

Teaser VI° numero "Rumore" in uscita il 16 giugno 2012





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con la partecipazione speciale di Stefano Toniolo per l'illustrazione di copertina