Ogni parola è una
cornice
There’s more to the
picture
than meets the eye
Hey hey, my my
N. Young, My My,
Hey Hey (Out Of The Blue)
Ogni parola è una cornice, a quanto pare. A
voler essere più precisi: ogni tentativo di dire qualcosa, di comunicare – a se
stessi o agli altri – un pensiero, un sentimento, un proposito; ogni frammento
di linguaggio che, più o meno articolato, più o meno efficace, voglia
descrivere un pezzo di mondo, fa qualcosa di tanto invisibile quanto
essenziale: riconferma un orizzonte entro il quale quelle parole hanno senso
per qualcuno. Difficilmente lo sposta, lo restringe, lo allarga. Diventare
consapevoli di ciò è la via maestra per comprendere che come diciamo
qualcosa è parte stessa di cosa stiamo dicendo: tratti apparentemente
accidentali in comunicazioni sedicenti neutre, come il tono, il vocabolario
utilizzato e – ancora di più – la combinazione delle parole, sono tutti elementi
decisivi, che lo si sappia o meno; che lo si voglia o meno. Nulla di
straordinario, si dirà: chiunque abbia avuto a che fare con se stesso o con
altri essere umani per qualche tempo, ha vissuto esperienze più o meno
traumatiche, legate al carattere eccedente di ogni discorso, al suo
essere semplicemente quello che è – un insieme di parole, di segni sulla carta,
di suoni – e al tempo stesso mostrare qualcosa che nessuna parola potrà
spiegare, perché sarebbe una chiosa inutile o ridondante, un arrivare in
ritardo ad un appuntamento decisivo. L’ha cantato bene Neil Young: «C’è più
nell’immagine / di quando l’occhio possa vedere»; e se ogni parola è una
cornice, una cornice che quando viene vista scompare, allora quel di più,
quell’eccedenza, sarà il segno di una sconfitta inevitabile: chi voglia
togliere la cornice, vedrà sbriciolarsi il dipinto tra le mani. Eppure, non
possiamo fare a meno di dimenticarci di questa ovvietà, per gran parte della
nostra esistenza.
Di tale, preziosa intuizione si è servito,
in anni recenti, un linguista statunitense, George Lakoff, attento studioso del
ruolo della metafora nella vita quotidiana di ognuno – quindi, del carattere
poetico di ogni linguaggio, scientifico o ordinario che sia. Lakoff parla di
“cornice” (frame) per indicare quello che noi abbiamo sommariamente
indicato come orizzonte di senso e che, dal punto di vista delle sue
applicazioni ed implicazioni politiche, risulta essere il vero campo di
battaglia di ogni discorso che voglia convincere. Elettore e sostenitore del
Partito Democratico, Lakoff vide il progressivo – e tutt’altro che progressista
– piegarsi della retorica liberal alle parole d’ordine dei repubblicani,
in particolare in occasione della campagna elettorale che portò al secondo
mandato di George W. Bush, vittorioso sul democratico Kerry. Lo sconcerto e la
preoccupazione di Lakoff furono grandi, non tanto – non solo – per la seconda
affermazione del Presidente che aveva voluto gli interventi militari in
Afghanistan e Iraq, infiammandoli con la benzina del fanatismo religioso delle
sette protestanti americane; ciò che più preoccupava Lakoff, scienziato del
linguaggio e cittadino, era la conquista, da parte dei repubblicani, del frame,
della cornice di senso entro cui ogni discorso avrebbe dovuto inserirsi per
essere anche solo ritenuto legittimo dalla comunità politica: una volta imposto
il proprio frame come codice di riferimento per il dibattito pubblico,
un movimento (politico, religioso, etc.) ha di fatto posto le basi per una
facile vittoria, perché anche il discorso che voglia porsi come radicalmente
alternativo, dovrà usare le sue parole – il suo tono, le sue metafore – per
essere ascoltato. Riconfermando, con ciò, il discorso del vincitore. È quanto
accadde, a detta di Lakoff, alla parola “libertà”, tanto cara all’immaginario
statunitense: una parola complicata, che si dice in molti modi e viene usata da
persone con convinzioni e atteggiamenti molto diversi, prestandosi allo scontro
retorico per la supremazia “di sfondo”. Chi riesca a persuadere la società
civile della bontà del proprio concetto di libertà, avrà vita facile a condurre
i giochi politici e a mostrare il carattere “illiberale” dell’avversario.
Questi, da parte sua, nell’immediato potrà solo cercare di limitare i danni e
cominciare un lungo lavoro contro-culturale, per provare a cambiare cornice – e
a dipingere, quindi, uno scenario differente. Sì, perché è vero che il
carattere inapparente del frame, il suo scomparire nelle parole che
incornicia, lo rende difficile da riconoscere e quindi quasi inattaccabile;
eppure, in quel “quasi” c’è molto: c’è il logorarsi delle parole che pensavamo
eterne, c’è lo slittamento semantico, il mutar di senso di vocaboli e concetti,
dal momento che questi sono pur sempre parte di una forma di vita, di scontri e
incontri, condizioni economiche e sociali, bisogni e desideri privati o
pubblici (sempre di più: privati e pubblici). Ogni cornice, anche la più
bella, anche la meno visibile, può presentare alla lunga delle crepe.
Incontrandoti per strada, ascoltando una
canzone, mangiando con le mani, ripensando al tempo trascorso e accorgendomi
che le cose non erano andate esattamente così come avevo pensato fino al giorno
prima, ascoltandoti o lasciandomi guidare da un’esitazione dello sguardo, posso
anche rinunciare a convinzioni che, all’improvviso, mi sembrano di comodo,
accettate per abitudine o per paura. Sembra dirci questo, George Lakoff.
Sembra
cantare questo, Neil Young.
Hey hey, my my.
M.P.
Da leggere George Lakoff, Don’t Think Of An
Elephant! (2004) (tr. it. di B. Tortorella, Non
pensare all’elefante!, Fusi Orari, Roma 2006)
George Lakoff,
Whose Freedom? The Battle Over America’s Most Important Idea (2006) (tr it. di V.
Roncarolo, La libertà di chi?, Codice edizioni, Torino 2008)
Da ascoltare Neil Young, My My, Hey Hey (Out Of
The Blue), da Rust Never Sleeps (1979)
Da vedere Hal Ashby, Harold e Maude
(USA, 1971)